Wednesday, May 2, 2018

Un'idea di scuola




Nella “Moratoria sulla Buona Scuola”, un appello firmato nei mesi scorsi da un migliaio di insegnanti e studiosi, si legge: «La scuola è e deve essere sempre meglio una comunità educativa ed educante. Per questo non può assumere, come propri, modelli produttivistici, forse utili in altri ambiti della società, ma inadeguati all’esigenza di una formazione umana e critica integrale». E ancora: «Bisogna chiedersi, con franchezza: cosa è al centro realmente? L’educazione, la cultura, l’amore per i giovani e per la loro crescita intellettuale e interiore, non solo professionale, o un processo economicistico-tecnicistico che asfissia e destituisce?». La tesi è nota e coglie nella formazione di scuola la contrapposizione tra due paradigmi antagonisti, quello “del capitale umano”, economicistico e orientato all’efficienza e alla produzione, e quello “dello sviluppo umano”, preoccupato invece della promozione dell’uomo e delle libertà personali (Baldacci, 2014). In buona sostanza: l’istruzione per il profitto e l’istruzione per la democrazia (Nussbaum, 2011).
Scorrendo le pagine del documento mi sono sentito confermato nelle ragioni che mi hanno spinto a scrivere, in almeno due direzioni.
La prima è la convinzione che oggi più che mai si abbia bisogno di un’idea di scuola. Non di discorsi: di un’idea. “Pensare la scuola” è il compito che tradizionalmente è sempre stato svolto dalla pedagogia della scuola e che oggi rischia di essere delegato da una parte alla politica, dall’altra ai tecnici. Il problema è che l’una e gli altri – la politica e i tecnici – un’idea di scuola, anche se ingenua e implicita, ce l’hanno: così le loro scelte, anche se lontane dalla pedagogia, finiscono per materializzarla. Di qui l’importanza di tornare a pensare la scuola, di riproporre un confronto sulla scuola.
Qui trovo l’altro spunto. Se è importante riproporre un confronto sulla scuola, discutere di quale sia l’idea di scuola che vogliamo realizzare, è altrettanto importante farlo in modo non ideologico, lontano da preconcetti. È ancora fresca la memoria della berlusconiana scuola “delle tre i” (Impresa, Inglese, Informatica) e di come il governo di centro-sinistra le avesse sostituito la scuola “della serietà, del merito, delle regole”. Discutere di un’idea di scuola significa non accingersi all’ennesimo testacoda, non sostituire la “buona scuola” con un altro slogan (i “contenuti”, figli della cultura e della libertà di pensiero, al posto delle competenze, sintomo dell’asservimento al mercato e alla produzione), ma riprendere con serietà il discorso da dove è stato interrotto: la scuola è troppo importante perché diventi solo uno spazio di schermaglie da bar dello sport.

Il libro muove da queste consapevolezze (alimentate negli ultimi anni dalla partecipazione a seminari, da molti incontri di formazione degli insegnanti, da scritti brevi generati da queste occasioni) e si costruisce su quattro idee, una per ciascuno dei capitoli di cui è composto.
Il primo capitolo lavora sulla constatazione che la scuola funziona ancora oggi come un dispositivo. Tutto lo suggerisce: il rapporto tra uno che parla e gli altri che ascoltano, l’orario, la suddivisione in classi e discipline, il registro, i voti, le sanzioni, l’autorità, la verticalità dei rapporti. Invece, nello stesso tempo, la società è andata sempre più orizzontalizzandosi (Marzano & Urbinati, 2017) e la famiglia ridefinendosi secondo un modello affettivo piuttosto che normativo (Lancini, 2017). Lo scarto è evidente e si traduce in un ritardo culturale, nell’incapacità di risultare significativa per i suoi studenti.
Il secondo capitolo è dedicato al “fiuto degli studenti” e agli “insegnanti incompiuti”.  Un insegnante è incompiuto se è sempre in ricerca, se non si accontenta. Non è un professionista seduto, l’insegnante, ma qualcuno che la consapevolezza del proprio dovere e lo sguardo dei suoi ragazzi guidano costantemente verso il meglio. Solo così l’insegnante risulta significativo e merita il riconoscimento degli studenti.
Il terzo capitolo è organizzato attorno al metodo. In una società orizzontale potrebbe sembrare che il metodo non serva, poiché rappresenta, probabilmente, una traccia della verticalità di cui ci si dovrebbe essere finalmente liberati. Ma non è così. Se il lavorare con metodo non si traduce in una gabbia, per l’insegnante e per lo studente, esso è lo spazio attraverso il quale l’insegnante può organizzare le proprie pratiche professionali e la scuola assumere l’innovazione. Quanto allo studente, il metodo gli garantisce il giusto grado di direttività, che non vuol dire che l’insegnante gli si sostituisca togliendogli il margine di qualsiasi responsabilità, ma che gli possa indicare il quadro e le coordinate entro cui muoversi per fronteggiare la complessità.
L’ultimo capitolo discute dei media digitali, muovendo dall’assunto che oggi noi e i nostri ragazzi siamo, per così dire, “attraversati dai media”. Questo comporta che non abbia senso discutere se ritagliare o meno per essi uno spazio in scuola: se la scuola vuole essere contemporanea deve occuparsi dei media, come linguaggi in cui le culture giovanili sono articolate e come dispositivi attraverso i quali le vite di tutti sono espresse. Occuparsi dei media non significa cedere a una moda, ma perseguire l’obiettivo di rendere la scuola contemporanea. I media nella scuola sono frontiera etica e spazio di costruzione della cittadinanza.

No comments: